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 "Lo straniero della Galilea" - capitolo 1
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Inserito il - 12 Settembre 2023 :  18:48:22  Visualizza profilo  Modifica messaggio  Rispondi citando  Visualizza l'indirizzo IP dell'utente

Capitolo 1
Beati i poveri in spirito
Russell Perkins

dal libro “Lo straniero della Galilea”

Il Discorso della Montagna e l’insegnamento di Gesù in generale non rientrano affatto nel cristianesimo; non è nemmeno cristianesimo esoterico. È giudaismo esoterico. Dobbiamo riconoscere chiaramente che Gesù è venuto all’interno della religione ebraica, ha insegnato all’interno della religione ebraica e si è definito come inviato al popolo di quella religione e di quella generazione. Le sue parole in Giovanni 9, 5 furono: «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» e in Matteo 15, 24: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele».
Entrambe queste affermazioni, così come altre che verranno considerate in seguito, sono in diretto contrasto con i presupposti istituzionali della religione cristiana. The Gospel of Truth, del maestro gnostico Valentinus, attesta che il cristianesimo esoterico esisteva già nel II secolo: una concezione mistica che operava nel quadro del cristianesimo istituzionale e ne accettava le credenze dominanti, mentre Gesù insegnava nel quadro del giudaismo istituzionale, fatto più che mai evidente nel Discorso della Montagna. È vero che non esita a sottolineare dove l’attuale «establishment» o la comprensione essoterica della dottrina era sbagliata o incompleta. Ha rivelato i problemi delle interpretazioni tradizionali, ma lo ha fatto dal punto di vista dell’ebraismo esoterico, una prospettiva che non ha mai abbandonato.
Quelli che credono nella tradizione spirituale universale, la Filosofia Perenne o, come viene chiamata in India, Sant Mat, devono rendersi conto che gli scrittori ebrei che hanno indicato Gesù come un grande Maestro cabalistico, hanno ragione . È stato un Maestro che è venuto e ha insegnato la Via nel linguaggio del suo tempo, con i presupposti del suo tempo, nello stesso modo in cui i Maestri moderni vengono e parlano nel contesto dei nostri giorni. Questo è il modo in cui tutti i Maestri hanno operato e per ragioni molto pratiche: vogliono portarci a Casa. A loro non interessa gran che il metodo, come indicano innumerevoli storie di Gesù e di altri. Devono farlo. Lavorano entro i limiti del mondo fisico e li accettano.
Quando il Creatore Ultimo, il possessore dell’intero universo, entra nel mondo fisico decaduto, il mondo del Potere Negativo, come ospite non invitato, si presenta come una vittima. È vulnerabile alle sollecitazioni dell’universo fisico come lo siamo noi, e questo è il significato metafisico dell’incarnazione. Siamo vittime, siamo vulnerabili, e quando Dio s’incarna ed entra nel nostro piano di esistenza, diventa anch’egli vittima e vulnerabile. È il suo supremo segno di rispetto per noi. Non sospende le leggi e non gioca la partita come se fosse solo un gioco.
Questa premessa è difficile da comprendere, ma è la verità fondamentale che sta alla base della crocifissione e della morte di molti Maestri. In California, nel 1972, qualcuno chiese al Maestro Kirpal Singh perché Gesù fosse l’unico Maestro morto per i peccati del mondo. Egli rise e replicò: «Tutti i Maestri sono morti per i peccati del mondo». Fa parte del loro lavoro. Si rendono vulnerabili per aiutarci. Le ragioni sono molteplici e riguardano la natura del Dio Supremo e la natura del Potere Negativo che sta dietro a questo universo decaduto di causa ed effetto, di punizione e ricompensa e di brama per vantaggi egoistici.
Il perfetto Creatore Positivo, la nostra Sorgente, Colui che ci ha dato la vita e che coesiste in noi e il cui amore è innato in noi, viene nell’universo decaduto e si sottomette allo stesso schema di ricompensa e punizione che sperimentiamo noi. L’unica differenza è che nella Sua sottomissione c’è una trascendenza: a causa di ciò che essa realizza, l’intero processo diventa significativo, soprattutto se partecipiamo a ciò che fa.
Per molti versi il Discorso della Montagna è come gli insegnamenti di tutti i Maestri, ma è tenuto in particolare considerazione non solo in ambito cristiano, ma in tutto il mondo. Mahatma Gandhi, ad esempio, lo considerava il suo preferito tra tutte le scritture. Non è una legge nel senso delle leggi del Potere Negativo: «Fai questo e sarai ricompensato, non punito», eccetera. Recita come una legge nei punti in cui Gesù indica cosa accadrà se facciamo certe cose o se non le facciamo; ma è essenzialmente uno sguardo sulla realtà dell’universo che ignoriamo a nostre spese. La ignoriamo perché va contro quella che sembra essere la venatura umana, pur essendo, in realtà, la venatura umana caduta.
Quando nel sermone vengono menzionate punizioni o ricompense, sono come quelle che un padre indicherà al figlio: «Se uscirai in strada quando il traffico è intenso, probabilmente verrai investito, quindi per favore non farlo». Gesù sta spiegando la natura sia dell’universo decaduto del Potere Negativo sia dell’universo originale, non decaduto e reale che riflette il Potere Positivo, il Dio della misericordia e dell’amore. L’unico modo per dare un senso all’universo decaduto è vivere in esso dalla prospettiva di quello non decaduto. L’unico modo per dare un senso al mondo in cui predominano la giustizia, la legge, la ricompensa e la punizione è vivere in esso dal punto di vista dell’amore.
Se viviamo in questo modo, invochiamo quell’amore in noi stessi. Ecco perché Gesù dice che se perdonate gli altri, il Padre vostro celeste perdonerà voi; non perché Dio sia interessato a perdonarci solo quando abbiamo imparato a perdonare gli altri, piuttosto perché l’atto di perdonare gli altri invoca il suo simile. Amando portiamo l’amore dentro di noi; perdonando portiamo il perdono dentro di noi. Nel Discorso della Montagna ci viene fornita una mappa dell’universo infallibile e del modo in cui interagisce con quello decaduto. Ci insegna a vivere per riuscire a fare il massimo uso possibile della vita umana.
La prima frase del sermone (Matteo 5, 3) è:

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno
dei cieli.

e la terza proposizione è probabilmente una ripetizione della prima; si tratta di una citazione del Salmo 37:

Beati gli umili perché erediteranno la terra.

Si pensa che non si tratti di frasi separate, perché «i poveri in spirito» e «gli umili» sembrano significare la stessa cosa. Gesù sta dicendo che i poveri di spirito hanno il paradiso, e poi cita il Salmo per sottolineare che hanno anche la terra. Usa la scrittura come supporto, proprio come Sant Ajaib Singh Ji fa spesso un’affermazione e poi cita Kabir o Nanak per sostenerla.
Che cosa si intende per «poveri in spirito»? La parola greca «poveri» (ptochoi), che viene usata qui, ha acquisito più tardi un significato quasi tecnico come traduzione dell’aramaico ebionim, che significa letteralmente «i poveri». I primi seguaci ebrei di Gesù a Gerusalemme erano conosciuti come Ebioniti, come abbiamo visto. In Luca 6, 20, dove si trova un passo simile, si legge: «Beati voi che siete poveri, perché vostro è il regno di Dio». Poi accompagna (Luca 6, 24): «Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione». Ovviamente non si tratta di un comandamento, ma di una constatazione della realtà. Ha a che fare con la vulnerabilità, il «vittimismo» degli esseri umani su questo pianeta, e con prendere atto di come stanno realmente le cose.
Quanto più siamo ammortizzati e protetti dalla realtà grazie a sicurezza, denaro, agi e altri aspetti della ricchezza mondana, e quanto più diamo per scontato che questa sia la norma, tanto più siamo vulnerabili. Più siamo poveri e più ci rendiamo conto della nostra debolezza, più diventiamo forti. Quindi il modo per affrontare la vulnerabilità è riconoscerla. Quando capiamo che non controlliamo nulla su questo piano fisico, abbiamo la possibilità di diventare forti. Possiamo diventare veramente ricchi nel vero senso della parola; possiamo ereditare sia il cielo sia la terra, il regno di Dio per primo. Nel momento in cui ammettiamo che il potere che pensavamo di esercitare sull’ambiente, sulle circostanze o sulla vita è in realtà un’illusione, siamo sulla strada per avere un vero controllo. Diventa possibile.
Ci sono molte storie che vari Maestri hanno raccontato per illustrare queste verità, e nel libro, Nel Palazzo dell’Amore, Sant Ajaib Singh Ji racconta la storia di Dara Shikoh e Sarmad. Dara Shikoh era una persona molto spirituale e un iniziato di Sarmad; era anche il figlio maggiore e l’erede dell’imperatore moghul Shah Jahan, che costruì il Taj Mahal. Sarmad era ebreo ed era stato educato nella comunità ebraica, ma era anche un grande maestro sufi. Dara Shikoh e Sarmad stavano studiando le parole di Guru Nanak e lessero che una persona è a suo agio solo finché gode della grazia di Dio. Nel momento in cui viene meno, anche se è un re può essere costretto a mangiare erba e nessuno gli darà cibo quando lo mendicherà.
Dara Shikoh rimase disorientato. Era cresciuto nel palazzo reale e si era sempre saputo che sarebbe diventato re. Disse: «Com’è possibile? Io diventerò re. Non dovrò mai mangiare erba. Anche se andassi a mendicare, la gente non mi riconoscerebbe? Non saprebbero che sono il re e non mi darebbero da mangiare? Com’è possibile?» Sarmad rispose: «Ciò che i Maestri hanno scritto, è vero e vedrai come sarà».
Poi accadde che il figlio minore di Shah Jahan, Aurangzeb, imprigionò il padre perché non voleva che Dara Shikoh diventasse re. Si impadronì del trono prima della morte del padre e Dara Shikoh divenne un rifugiato, in fuga dal fratello. Alla fine fu catturato, torturato e imprigionato. A un certo punto fu portato in giro incatenato su un elefante:

In seguito era molto debole, poiché non aveva mangiato per molti giorni, e quando fu portato vicino a un campo di ceci, cercò di mangiare un po’ di erba o di foglie delle piante di ceci; ma i soldati di Aurangzeb avevano l’ordine di non permettergli di mangiare nulla, nemmeno l’erba; così, anche se ci provò, non riuscì. Allora ricordò ciò che aveva detto il Maestro Sarmad, citando il bani di Guru Nanak: «Se Dio distoglie la vista benevola, se Dio non elargisce la grazia, l’imperatore può diventare un mendicante e può essere costretto a mangiare erba». A quel punto si rese conto: «Una volta ero un re; stavo per diventare un imperatore, ma non lo sono diventato e non posso nemmeno mangiare erba. Qualsiasi cosa abbiano detto i Maestri, è vera».
Più tardi giunsero in un altro luogo dove una donna stava cucinando e, poiché lui era molto affamato, chiese qualcosa; ma la donna rispose: «Non conosci gli ordini di Aurangzeb? Se ti do cibo, mi ucciderà». Non ottenne alcun cibo dalla donna, anche se la supplicò. Rammentò le parole del Maestro a proposito del bani di Guru Nanak e si convinse che tutto ciò che i Maestri avevano scritto, era completamente vero.
Alla fine fu portato nel luogo in cui era rinchiuso Sarmad, perché anche il suo Maestro era stato imprigionato da Aurangzeb con la motivazione che stesse aiutando Dara Shikoh a conquistare il trono. Sapete che i Santi e i Mahatma non hanno nulla a che fare con il potere mondano e i governanti, e Dara Shikoh non ricevette alcun aiuto dal Maestro Sarmad per ottenere il trono; era solo un’accusa infondata. Quando Dara Shikoh e Sarmad si trovarono a faccia a faccia, il Maestro disse: «Dara Shikoh, ora la porta di Sach Khand è aperta; perché non ti sacrifichi? Perché non rinunci al corpo e vieni nel vero Regno di Dio a conquistare il vero trono?» Ascoltando le parole del Maestro Sarmad, Dara Shikoh si arrese: sacrificò la testa e andò alla Vera Casa. (Ajaib Singh, Nel palazzo dell’amore, pp. 195-196)

Quando i Maestri dicono cose del genere, possiamo avere l’impressione che siano negativi; ma il fatto è che stanno indicando la Realtà, in modo che abbiamo la possibilità di affrontare gli eventi partendo da un punto di forza piuttosto che di debolezza. Il paradosso è che più ci vediamo deboli rispetto all’universo, più abbiamo forza reale, perché la forza che pensiamo di avere è fondamentalmente ingannevole. In effetti, non possiamo affrontare nulla di veramente importante se non attraverso la grazia di Dio. Se pensiamo di poterlo fare, scopriamo presto che non è così. La vita è difficile ed è per questo che le persone che capiscono di non poter fare nulla senza Dio, sono benedette ed ereditano il cielo e la terra.
Un rabbino chassidico ha detto che tutti dovrebbero avere due tasche. In una tasca c’è scritto: «Io sono terra e cenere», mentre nell’altra: «Per me è stato creato l’universo». Entrambe le affermazioni sono vere e l’intera dottrina dell’umiltà e della povertà in spirito si basa sulla comprensione simultanea di questi due detti. L’universo è stato creato per noi. «Abbiamo il diritto di nascita di diventare Dio», ha detto Kirpal Singh. Una volta diventati Dio, siamo Dio: questa potenzialità ci appartiene. Allo stesso tempo, coloro che hanno raggiunto questo stato, chiariscono molto bene che dal loro punto di vista non si affermano in alcun modo. Entrambi i concetti devono essere presenti contemporaneamente, altrimenti si verifica una grande distorsione.
In tutto questo è coinvolta la realtà fondamentale che il modo in cui l’universo positivo e non decaduto dell’amore interagisce con l’universo negativo e decaduto del karma, del giudizio e della «giustizia» è attraverso la debolezza. Si tratta di un paradosso che vale la pena esplorare e che è alla base dell’insegnamento dell’umiltà.
Nei Filippesi 2, 1-11 San Paolo scrive:

Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto, frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso. Ciascuno non cerchi l'interesse proprio, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò sé stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore! a gloria di Dio Padre».

Qui è chiaro che l’esaltazione, la gloria di Gesù sono rese possibili dalla sua disponibilità a essere uno schiavo e ad accettare una morte che non era degna nemmeno di uno schiavo, perché era una morte da criminale, paragonabile alla sedia elettrica dei tempi moderni. Se ci risulta difficile capire come questa morte vergognosa abbia colpito i suoi discepoli, i suoi seguaci e perché abbiano trovato così arduo comprendere il motivo per cui il loro Maestro si sarebbe lasciato crocifiggere, riflettiamo su come ci sentiremmo noi se il Maestro, che conosciamo, amiamo e da cui dipendiamo per la guida spirituale, fosse condannato alla pena capitale da un tribunale e fatto morire su una sedia elettrica. Il nostro dolore sarebbe paragonabile al loro.
Gesù era disposto ad accettare tutto questo come parte di ciò che gli veniva richiesto. Perché? Spesso si è ipotizzato che il Dio amorevole fosse un Padre meschino e tirannico che esigeva dal figlio il suo sacrificio e questo deriva dal credo cristiano tradizionale. Ma in realtà era perché la natura dell’universo decaduto richiede che coloro che s’incarnano in esso per sovvertirlo e liberarne gli abitanti mostrando il loro vero potenziale, debbano sottomettersi alle richieste dell’universo decaduto affinché il piano di fuga funzioni.
I Maestri lo hanno spesso spiegato in relazione al karma. Prima che il Maestro possa riportarci a Casa, deve accadere qualcosa al nostro karma. Il Maestro non può semplicemente dire: «Non esiste più», perché nell’universo decaduto non scompare. Quindi il Maestro accetta di pagare il nostro karma perché ci ama. Di conseguenza, dovremmo vivere in modo da produrre il minor karma possibile e rendere così più facile il compito del Maestro; tutto il karma che non contraiamo, non deve essere pagato. Anche noi dobbiamo pagarne una parte, ma c’è un limite a quello che riusciamo a sopportare; non c’è limite a quello che può sopportare lui, e quindi soffre per noi. Questo è il segreto della crocifissione ed è il motivo per cui Kirpal Singh ha detto che «tutti i Maestri sono morti per i peccati del mondo».
È la disponibilità del Maestro a ripagare i nostri karma che lo rende vulnerabile, ma la comprensione della nostra debolezza e la nostra disponibilità a vivere dal suo punto di vista coincidono con il suo scopo e servono quindi ad aiutarlo nella sua opera e ad aiutarci a compiere il nostro destino.
La Seconda Lettera di San Paolo ai Corinzi, capitoli 11, 12, è uno dei passi più interessanti di tutto il Nuovo Testamento e va considerata in relazione al nostro tema attuale. Lo sfondo di questo passo è che molte persone si sono lamentate di Paolo perché pensano che non sia abbastanza energico; vogliono un altro tipo di persona che faccia miracoli e che trasmetta un messaggio di forza e potere, e Paolo si rifiuta di obbedire.

Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri un pazzo. Se no, ritenetemi pure come un pazzo, perché anch’io possa vantarmi un poco. Quello che dico, però, non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto, nella fiducia che ho di potermi vantare. Dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch’io. Infatti voi, che pure siete saggi, sopportate facilmente gli stolti. In realtà sopportate chi vi rende schiavi, chi vi divora, chi vi deruba, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia. Lo dico con vergogna, come se fossimo stati deboli!

Paolo si riferisce naturalmente ai cosiddetti «super-apostoli» che si sentono più spirituali di Paolo e che si rapportano al popolo come un padrone mondano tratta i suoi schiavi.

Tuttavia, in quello in cui qualcuno osa vantarsi – lo dico da stolto – oso vantarmi anch’io. Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; 27disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza.
Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mento. A Damasco, il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani.
Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che questo uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare.

La versione di Re Giacomo recita: «... udì parole indicibili di Dio che nessuno può pronunciare». «Questo uomo» a cui si riferisce Paolo, è universalmente considerato come sé stesso; parla in terza persona perché la sua preoccupazione è quella di contrapporre la debolezza fisica e la volontà di essere deboli con le ricompense che ne derivano. Continua:

Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni.
Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Questo è il nocciolo della questione e la verità di fondo che sta alla base di tutto questo; è anche il motivo per cui la dottrina dell’umiltà è così pervasiva e così fraintesa. La forza di Dio risiede nella debolezza degli esseri umani, ma paradossalmente può manifestarsi solo quando gli esseri umani sono consapevoli della propria debolezza. C’è qualcosa nella nostra consapevolezza che permette al potere di Dio di operare. I Maestri stessi, nella vita fisica, sono i migliori esempi di questo principio; e anche alcune persone che non sono Maestri, ma sono persone spirituali, sante, venute con una missione speciale, rivelano la verità di questo principio nella loro vita.
Kirpal Singh, nel suo discorso sull’«Umiltà», tratta questo argomento da un punto di vista un po’ più personale. Sembra esserci un problema di comunicazione tra i Maestri e noi quando dicono, ad esempio, che la vera umiltà non è una specie di pochezza forzata. Tendiamo a ignorare o a dimenticare che il Maestro Kirpal lo ha affermato molto chiaramente; e quando Sant Ji dice nei bhajan «sono un peccatore» o «non sono niente», cantiamo le parole e cerchiamo di intenderle, ma noi non ci sentiamo veramente così. Il vero valore nel cantare i bhajan sta in una sorta di abbandono che si verifica quando, mentre li cantiamo, permettiamo alla prospettiva del Maestro di superare la nostra per un po’. Non fingiamo che qualcosa sia vero quando non ci crediamo veramente, ma abbandonandoci anche solo un po’ permettiamo alla visuale del Maestro di influenzarci in quel momento, anche se non abbiamo raggiunto il punto in cui riusciamo a condividerla pienamente.
Tuttavia, come chiarirà questo brano, il vedersi come nulla deriva da una visione del resto dell’universo, noi stessi compresi, come qualcosa. È una questione di prospettiva e di proporzioni. Non funziona mai quando ci mettiamo in secondo piano solo perché pensiamo di doverlo fare, e quasi sempre ci fa sentire ribelli perché nessuno riesce a vivere così. Le persone più umili sono quelle che si sentono meglio con sé stesse. Pensare di essere depravati non equivale a umiltà, è una specie di egotismo perverso. Comprendere che siamo figli di Dio e fratelli o sorelle di chiunque altro nell’universo e parte integrante del tutto, ma non più di questo, è ciò che ci dice il Maestro. Pertanto, il tipo di arroganza che spesso abbiamo e che ci porta a presumere che ciò che vogliamo, sia giusto e a ignorare il dolore, i bisogni degli altri mentre li sfruttiamo o li manipoliamo nelle nostre relazioni, deriva dal fatto che non vediamo dalla prospettiva del tutto.
Il Maestro Kirpal dice:

Sì, i rami dell’albero carico di frutti s’inchinano di conseguenza. Con tutto questo l’uomo che perde sé stesso, trova Dio, lo trova dappertutto e in tutti; s’inchina davanti a tutti, fa atto d’omaggio del proprio cuore a tutti. Questa è la vera umiltà. Non è una sensazione forzata di modestia. Un simile individuo vive nell’unità con tutti. È negli altri e gli altri sono in lui. È il falso ego a far sorgere il senso di discordia e separazione. Quando l’illusione dell’ego viene spezzata, uno sente: «Non sono diviso dagli altri, bensì gli altri sono parti dell’Unico Dio. Il Maestro e tutti noi siamo impegnati nello stesso servizio di Dio».
Ciascuno di noi è unico a modo suo. Esiste uno scopo divino dietro la vita di ognuno che viene nel mondo; nessuno è stato creato per nulla. Abbiamo qualcosa da imparare da tutti. Questo è il mistero dell’umiltà.

Notate il paradosso insito in quest’affermazione che è una delle più famose che il Maestro Kirpal abbia mai fatto. È una massima veemente e accurata, ma notate che «il mistero dell’umiltà» non ha nulla a che fare con la denigrazione di noi stessi. Al contrario. «Nessuno è stato creato per nulla» ed «esiste uno scopo divino dietro la vita di ognuno che viene nel mondo» si riferiscono a noi come a chiunque altro. Ancora, vediamo che «amerai il prossimo tuo come te stesso» non solo significa che il nostro prossimo è noi stessi, ma implica anche l’obbligo di amare noi stessi. È il senso del tutto – della realtà, della maestosità e dello scopo di ogni cosa – che ci permette di sentirci bene con noi stessi come parte di quella totalità.
La lettura continua:

La persona veramente umile non si paragona agli altri. Sa che nessuno di noi, per quanto evoluto, è perfetto; nessuno di noi è completo in sé stesso. La persona umile non si considera migliore dell’altro; crede nella divinità di ognuno. Se uno dice e sostiene di essere migliore degli altri, allora non è ancora perfetto.

Il bellissimo paradosso si ripete anche in questo caso. «L’umile non si considera migliore dell’altro» significa che non considera nessuno migliore di lui. Sa che ognuno è uguale, siamo tutti figli di Dio, siamo tutti fratelli e sorelle. Da questa prospettiva vediamo che nessuno, compresi noi, è più importante di un altro; ma vediamo anche che nessuno, compresi noi, è meno importante di un altro. Crediamo nella divinità di ciascuno.
La lettura continua:

Dio viene e ricolma uno solo quando questi realizza la propria nullità. Laddove c’è l’uomo, non c’è Dio; laddove non c’è l’uomo, c’è Dio! Dio non può entrare nel cuore della persona egoista. Chi è pieno di sé, si considera superiore agli altri e così si autoimpone un limite. Dio è senza limiti. Come può l’Illimitato entrare nel limitato?

Quando il Maestro dice «realizzare la propria nullità», non intende vedere il proprio io come un fallimento, piuttosto come una parte del tutto. Poi fa un riferimento diretto al problema dell’interazione tra l’universo decaduto e quello non decaduto, l’invasione dell’uno da parte dell’altro. La caratteristica dell’universo non caduto è l’eternità, l’infinito e l’illimitatezza. Questa illimitatezza si può manifestare nell’universo decaduto solo rifiutandone i paragoni, i criteri e le misure. Quando sprofondiamo nella trappola della misurazione dell’ego, impediamo all’illimitatezza dell’universo non caduto di influenzarci.
La lettura continua:

Un uomo può adoperarsi con tutti gli sforzi per essere umile eppure diventa ancora più orgoglioso. Esiste una specie di orgoglio dell’umiltà; è pericolosissimo poiché è troppo sottile per essere riconosciuto dall’inesperto. Ci sono alcuni che si affannano per essere umili; rendono l’umiltà impossibile. Come può essere umile un uomo che pensa tutto il tempo a come essere umile nel modo migliore? Un uomo simile è continuamente occupato con sé stesso, mentre la vera umiltà è la liberazione da ogni coscienza di sé, che include libertà dalla coscienza dell’umiltà. L’uomo veramente umile non sa mai di esserlo.
«Umiltà», dice Lacordaire, «non consiste nel celare i nostri talenti e virtù, nel pensare a noi stessi peggiori e più ordinari di quanto siamo, ma nel possedere una consapevolezza cristallina di tutte le nostre mancanze e di non esaltarci per ciò che abbiamo, vedendo che Dio ce l’ha dato liberamente, e con tutti i suoi doni siamo ancora infinitamente di poca importanza».
Perciò l’uomo veramente umile può accettare a volte l’elogio che gli uomini gli assegnano, e lo trasferisce silenziosamente a Dio senza tener nulla per sé. (La Via dei Santi, pp. 283-285)

L’intero messaggio del Maestro Kirpal sulla vera umiltà è una descrizione meravigliosa di cosa significhi vivere in pace, perché è attraverso il possesso della pace interiore che si realizza l’eredità del cielo e della terra. Naturalmente c’è sempre il problema che tutti abbiamo riconosciuto a volte: i Maestri ci dicono cosa fare, ma non ci dicono veramente come farlo. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». Come si diventa poveri in spirito? Il Maestro Kirpal ha scritto molto bene sull’umiltà, che è la stessa cosa che Gesù intendeva con «poveri in spirito», e ci ha detto cosa è e cosa non è. Ma come raggiungerla?
Non c’è un come. Partecipare a un angolo di visione è possibile solo grazie a una connessione. Questo è il significato degli insegnamenti sull’amore per il Maestro. Se amiamo qualcuno che ha un punto di vista particolare, la legge della natura ci permetterà di condividere quel punto di vista con quella persona. Se amiamo il Maestro che vive in perfetta umiltà, questo amore ci porterà a vedere le cose in modo tale e a fare le cose in modo tale che gradualmente, a poco a poco, il suo punto di vista diventerà il nostro.
Ciò avverrà senza grandi angosce mentali da parte nostra. Forse dovremo imparare a conoscere la nostra vulnerabilità, come fece San Paolo; molti di noi hanno già imparato quanto sia limitata la nostra sfera di controllo e quanto siamo fragili. La nostra disponibilità a riconoscere che possiamo sbagliare, che possiamo fare cose poco gentili e non essere comprensivi nei momenti cruciali, ci insegnerà lentamente, ma inesorabilmente l’umiltà di spirito a cui Gesù ci esorta.
L’amore per Dio che opera attraverso un Maestro vivente, porta a partecipare al suo angolo di visuale, e questa partecipazione a sua volta porta a un amore più grande per Lui. Sono come le due ali di un uccello. Gesù sul monte, mentre istruiva i discepoli su come vivere e come amare, stava aprendo loro gli occhi sulla sua prospettiva e li invitava a condividerla, in modo che anche loro riuscissero a vivere in pace, amore e insegnare il suo vangelo agli altri.


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