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 "Lo straniero della Galilea" - capitolo 3
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Inserito il - 07 Ottobre 2023 :  10:32:57  Visualizza profilo  Modifica messaggio  Rispondi citando  Visualizza l'indirizzo IP dell'utente
Capitolo 3
Beati quelli che hanno fame della giustizia
Russell Perkins

dal libro “Lo straniero della Galilea”

Non sottolineeremo mai abbastanza che il Discorso della Montagna, come gli scritti e i detti di tutti i Maestri, non è un insieme di regole, ma un tentativo di mostrarci quali sono le esigenze della realtà. Vivendo in conformità con queste esigenze, saremo benedetti o felici.
Stiamo considerando Matteo 5, 6:

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Cosa si intende per «giustizia»? Il Maestro Kirpal soleva definirla in questo modo:

Una volta fu chiesto a Zoroastro che cosa fosse necessario per conoscere Dio. Disse: «Giustizia». Poi gli fu chiesto: «Che cos’è la giustizia?» Rispose: «Buoni pensieri, buone parole e buone azioni». Dipende tutto dalla vostra attenzione o surat, come viene chiamata, che è l’espressione esteriore dell’anima. Ovunque la teniate impegnata o attaccata, quegli stessi pensieri riverberano sempre in voi. Naturalmente dobbiamo fare l’uso migliore delle cose, ma senza attaccarci ad esse. Se solo potessimo unire l’anima a qualcosa di superiore in noi, andremmo bene. Ma se la nostra attenzione è sviata attraverso le facoltà esteriori, così tanto da identificarci con le cose esterne, qual è il risultato? Non riuscite a ritirare l’attenzione. È una questione di attenzione o surat: la tenete occupata nelle cose esteriori oppure la volgete e unite al Supersé. (Discorsi del mattino, p. 126)

Il requisito della beatitudine è quindi la giustizia, con la quale non si intende solo «fare la cosa giusta», sebbene anche questo sia essenziale. La parola in greco è dikaiosyne ed è difficile tradurla in inglese senza tralasciare qualcosa. A volte viene tradotta «integrità». Ciò che è «giusto» fa parte del significato, così come la rettitudine e l’equità, ma fondamentalmente la parola trasmette il senso delle priorità di Dio, o il punto di vista di Dio, a cui Kirpal Singh fa riferimento nella citazione precedente.
Quindi possiamo leggerlo così: «Beati – o felici – coloro che hanno fame e sete delle priorità o del punto di vista di Dio, perché otterranno ciò che vogliono». Ormai dovrebbe essere chiaro che tutte queste beatitudini sono modi diversi di dire ciò che fondamentalmente è la stessa cosa, e s’interfacciano tra loro. Non possiamo comprendere veramente questa postilla senza fare riferimento a quella che la precede, «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati», e a quella che la precede, «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli».
Tutte e tre queste «felicità» o «benedizioni» – la povertà di spirito, il cordoglio o il pianto e la volontà con tutto il cuore di compiere le priorità di Dio – sono collegate. Ogni affermazione porta alla successiva e questo vale anche per quelle che seguono queste tre. Inoltre, è difficile discuterle in modo isolato, perché ciascuna di esse presenta molte sfaccettature che si riflettono o rimbalzano sulle altre della serie.
Swami Prabhavananda dice, in relazione a questo particolare versetto:

A chi gli chiedesse come realizzare Dio, Sri Ramakrishna rispondeva: «Grida con Lui con cuore bramoso e allora lo vedrai. Dopo la luce rosata dell’alba, esce il sole; allo stesso modo, l’anelito è seguito dalla visione di Dio. Si rivelerà a voi se lo amerete con la forza combinata di questi tre attaccamenti: l’attaccamento di un avaro alle ricchezze, quello di una madre al bambino appena nato e quello di una moglie casta al marito. L’anelito intenso è la via più sicura per la visione di Dio»…
C’è la storia di un discepolo che chiese al maestro: «Signore, come posso realizzare Dio?»
«Vieni», disse l’insegnante, «te lo mostrerò».
Portò il discepolo in un lago ed entrambi vi si immersero. Improvvisamente il maestro si avvicinò e spinse la testa del discepolo sott’acqua.
Pochi istanti dopo lo liberò e gli chiese: «Ebbene, come ti sei sentito?»
«Oh, avrei dato la vita per una boccata d’aria!», rantolò il discepolo.
Allora l’insegnante disse: «Quando sentirai Dio con quell’intensità, non dovrai aspettare a lungo la sua visione». (The Sermon on the Mount according to Vedanta, pp. 24-25)

Sant Kirpal Singh Ji ha raccontato spesso questa storia, nella quale possiamo trovare una dimensione di ricerca e di ritrovamento, di dolore o di cordoglio, di concentrazione o di determinazione. Nel romanzo Pilgrim’s Inn di Elizabeth Goudge, c’è una conversazione che tocca questo tema:

«Ma ho sempre pensato che la determinazione sia una sorta di concentrazione», ha detto Sally.
«Sì. Contrazione. Tutto raccolto per la donazione di te stesso. Tutto di te. Non trattieni nulla. Nessuna riserva. Nessuna scappatoia. Come un sommozzatore che si tuffa o un uomo che si sbatte alle spalle una porta che si chiude da sola per non poter tornare più indietro».
«E non potresti farlo senza pentimento», disse Sally pensierosa. «Questo lo vedo. Dovresti umiliarti prima di riuscire a lasciarti andare in questo modo. L’orgoglio non può lasciarsi andare. Ma la compassione?»
«È alla base di ogni donazione, non credi? Alla radice di tutta l’arte».
«Non puoi accumulare la bellezza che hai attirato dentro di te; devi riversarla di nuovo per gli affamati, per quanto debolmente, per quanto stupidamente. Devi farlo e basta». (p. 143)

Abbiamo detto che nel brano di Swami Prabhavananda ci sono elementi di unicità o concentrazione, di dolore o pentimento, di ricerca e ritrovamento; tutti questi elementi si uniscono in quella che il Maestro Kirpal ha chiamato «passione dominante». Inoltre, portano con sé un insegnamento che può essere molto pericoloso, sebbene tutti i Maestri, compresi il Signore Gesù, il Maestro Kirpal e Sant Ji, lo abbiano impartito. Si tratta della dottrina della «discriminazione» o del «non attaccamento», che sembra molto difficile da comprendere. Il motivo per cui può essere considerata pericolosa è che è facile commettere errori di autosuggestione in relazione ad essa. L’esempio più estremo di questo insegnamento si trova nel Vangelo di Luca, 14, 25-33:

Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».

Forse l’espressione più autentica e più chiara di questa parte del messaggio di Gesù si trova nel Vangelo di Tommaso, al versetto 101:

Gesù disse: «Chiunque non odia padre e madre come me non può essere mio discepolo, e chiunque non ama padre e madre come me non può essere mio discepolo. Poiché mia madre (mi diede la falsità) mentre la mia vera madre mi ha dato la vita».

Qui Gesù discrimina chiaramente tra l’amare il padre, la madre, la moglie e i membri della famiglia come estensioni di noi stessi e l’amarli per il Dio che vediamo operare attraverso di loro. È uno dei punti di questo passaggio. Finché «amiamo» queste persone – o chiunque altro nel nostro ambito – per i nostri scopi e per ciò che possiamo ottenere da loro, non siamo degni di essere discepoli. Vale anche per altre cose che amiamo nel modo, alcune delle quali potrebbero rientrare nella categoria dei «beni». È una forma di sfruttamento, anche se a noi non sembra. Questo tipo di rapporto di attaccamento non è mai compatibile con il vero amore e deve finire se vogliamo che al suo posto ci sia «fame e sete di giustizia».
La versione del Vangelo di Tommaso è preferibile perché include la clausola: «Chi non ama suo padre e sua madre come me, non può diventare mio discepolo». Gesù chiarisce che dobbiamo smettere di amare in modo inferiore, che non è vero amore e sostituirlo con l’amore per il Dio che opera nelle persone che ci circondano. Questo vero tipo di amore comprende rispetto, empatia per l’angolo di visuale dell’altro e consapevolezza delle priorità del punto di vista di Dio. Il suo punto di vista di solito ci arriva attraverso altre persone, non solo il Maestro, ma anche attraverso i nostri fratelli e sorelle, i nostri figli e altre persone che in teoria possono saperne meno di noi.
Marvin Meyer tocca un altro punto di questo passaggio:

«La mia vera (madre)» forse lo Spirito Santo, che può essere descritto come madre di Gesù in testi come il Libro Segreto di Giacomo, il Vangelo degli Ebrei e il Vangelo di Filippo. In questo modo l’enigma presentato nel detto (odiare i genitori e amare i genitori) viene risolto ponendo due ordini di famiglia e due madri di Gesù.

Va al cuore del paradosso: le persone amate a cui ci affezioniamo tanto, sono in realtà riflessi o ombre della Realtà che opera attraverso di loro, che è il vero oggetto e la fonte del nostro amore. Se la nostra attenzione è occupata dal riflesso, chi guarda la Realtà? Perciò è essenziale che la nostra attenzione sia distolta dalle ombre – che «odiamo», nel koan di Gesù – per vedere ciò che si nasconde dietro di esse. È indispensabile capire questo perché esiste il pericolo che, con il pretesto di seguire questa istruzione, un discepolo colga l’occasione per staccarsi dai membri della famiglia di cui non si cura comunque; potrebbe quindi semplicemente rifiutarsi di considerarli e andare avanti come il suo ego gli impone, senza interessarsi della sofferenza che questo potrebbe causare.
«Avere fame e sete della giustizia» è un altro modo di trasmettere l’idea espressa in Luca 9, 23:

Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».

O come Kabir, citato spesso dai Maestri: «Se vuoi avvicinarti al Paese delle Meraviglie dell’Amore, devi portare la testa sul palmo della mano in segno di offerta». Molte persone non amano questi detti e preferiscono non pensarci. Non le si può biasimare se non li capiscono o se ritengono che sia troppo chiedere loro di essere disposte a tagliarsi la testa o a insanguinarsi i piedi (camminando sul filo del rasoio, in un’altra famosa immagine) o a salire sulla croce. Eppure ci sono occasioni in cui ci vengono richiesti sacrifici severi, e in questi momenti può essere confortante riconoscere: «Oh sì, questo è ciò che il Maestro intendeva». Allora potremmo persino essere grati di averlo imparato in anticipo.
Il Maestro Kirpal Singh ha commentato questo argomento controverso in un discorso intitolato Why Don’t You Follow the Guru? (citato in Sant Bani, gennaio 1985, pp. 21-22), basato su un inno di Swami Shiv Dayal Singh Ji Maharaj:

Moglie, figli, amici sono i ladri che ci derubano di tutto.
Perché dormi in mezzo a loro?

Swami Ji Maharaj ci fa uscire da un senso di profondo torpore e ci risveglia alla nuda realtà della grande illusione. Ci dice che se una persona onesta si trova in mezzo ai borseggiatori, è più probabile che venga derubata. Se dormiamo tutti sonni tranquilli in compagnia di tagliagole, come possiamo essere al sicuro? Chi sono questi pericolosi malviventi? Non sono altro che i figli e i parenti, le amorevoli relazioni cui siamo sempre così devotamente legati. Forse sarete un po’ sorpresi di sentirlo dire. Pensate con calma per un momento. Se un ladro viene e ci porta via tutti i beni, siamo comunque salvi. Un altro viene, ci deruba tutto e ci spezza anche le gambe, siamo comunque salvi. Il terzo arriva e ci toglie anche la vita. Qual è il più pericoloso? Sicuramente il terzo.
I figli e i cari sono sempre al centro della nostra attenzione, che è l’espressione esteriore dell’anima. Ci tengono sempre impegnati in una forma o nell’altra e non ci lasciano tempo per la via spirituale, per cui sono i ladri più pericolosi in questa forma. Ciò significa che dobbiamo lasciare i nostri focolari, le nostre case e condurre una vita da reclusi nella giungla? No, non è così.
Rendetevi conto che è il desiderio e l’affetto interiore a tenervi legati mani e piedi, per così dire, ai vostri cari, e questo attaccamento o infatuazione vi rende sempre preoccupati e infelici. Capite, gli stessi legami d’affetto che dovrebbero essere motivo di felicità, diventano catene di schiavitù, perché siete sempre in preda a paure che, a dir poco, sono immaginarie e infondate. Il cuore, come sapete, è la sede del Signore Dio. È un bene che ci è stato affidato per uno scopo superiore della vita, cioè la conoscenza di sé e di Dio.
Laddove va il cuore, tutto lo segue per conto suo. Per questo il Maestro ci mette in guardia contro l’attenzione costantemente rivolta alle relazioni mondane, che causano sempre distrazione e disturbo. Sapete bene che gli impedimenti che ostacolano il discepolo bambino e si intromettono sconsideratamente nei preziosi momenti della santa meditazione, sono i legami familiari che ci trascinano sempre più giù dalla sede dell’anima, il centro degli occhi. Naturalmente dobbiamo vivere nel mondo, ma in modo completamente distaccato, proprio come un fiore di loto che emerge dal fango, rimane in alto e al di sopra dello stagno fangoso, conservando la sua purezza incontaminata.
Allo stesso modo, dobbiamo occuparci dei doveri mondani affidati alle nostre cure senza angosciarci delle preoccupazioni e degli affanni delle relazioni che, a parte noi, sono sufficientemente sotto la protezione del benevolo Potere del Maestro.
Lo si può capire molto bene con un semplice esempio. Un uomo che viaggia in treno, ha una scatola accanto sulla cuccetta. Ora il treno trasporta sia l’uomo sia la scatola. Se l’uomo si mettesse la scatola sulla testa, sarebbe sicuramente uno sciocco, perché si romperebbe il collo per niente. È esattamente la situazione dei saggi del mondo. In genere non abbiamo fede nel benevolo Potere del Maestro e creiamo inutilmente schiavitù problematiche, perché altrimenti tutto procederebbe senza intoppi nel Piano divino ben stabilito. Avrete notato che le acque disturbate non riflettono.
Cercate sempre di rassegnare il vostro piccolo e prezioso io a favore del misericordioso Potere del Maestro, mentre sedete nelle vostre sante meditazioni, e preparate così un terreno ricettivo affinché la grazia divina interiore scenda dentro di voi e vi ricolmi in abbondanza.

Anche l’insegnamento molto chiaro dell’attaccamento alle famiglie, eccetera come problema che ostacola l’unicità della mente viene di solito letto in modo diverso dalle persone in Occidente rispetto a quelle in India o in Oriente, perché le famiglie e i rapporti con le nostre famiglie sono intesi in modo diverso in Occidente. In Oriente sono assai legati alle relazioni familiari come modo per definire sé stessi, per determinare la propria identità o il proprio successo come individui. Ciò significa che è difficilissimo capire il senso del distacco dalla famiglia: come si fa a distaccarsi? È estremamente importante avere un figlio, per esempio: fa la differenza se sei un uomo o no. Allo stesso modo per le mogli e i mariti: per entrambi i sessi, la realizzazione personale si identifica in gran parte con il successo del matrimonio. In Occidente il problema è tenere insieme le famiglie; le persone se ne vanno e cercano al volo qualcun altro. In Oriente, invece, è esattamente il contrario.
Dovremmo quindi renderci conto che affermazioni come Luca 14, 26 sono rivolte a persone che sono riuscite a essere persone di famiglia. Non sono destinate a giustificare il fatto di non essere in grado di farcela con le nostre famiglie. Un eunuco non può essere casto; un codardo non può essere non violento. Possiamo rinunciare solo a ciò che abbiamo già, non a ciò che non siamo mai riusciti a ottenere. C’è una successione di passi: per prima cosa abbiamo una famiglia e ci troviamo bene in essa; siamo un buon padre, una buona madre, un marito, una moglie o altro. Poi, quando ci siamo riusciti – non quando abbiamo fallito – andiamo oltre. È implicito il fatto che la vita familiare è destinata a essere un aiuto sul Sentiero, ma di per sé non porta e non può portare alla realizzazione. Se falliamo nella vita familiare e non comprendiamo correttamente questo insegnamento, che cosa facciamo? Cerchiamo un’altra famiglia, un altro tipo di situazione sullo stesso piano della prima, che pensiamo possa essere appagante. Ma non è così. Non possiamo aspettarci il tipo di appagamento che la nostra anima richiede da coniugi, figli, genitori, amici, perché non possono darcelo. Per definizione, per la realtà della loro e della nostra natura, non possono farlo. Ciò che possiamo ottenere da loro, e ciò che loro possono ottenere da noi, è un amore distaccato (nel senso che non occludiamo la relazione con i nostri desideri e le nostre paure), pacifico, tranquillo, che accetta i difetti e gli errori degli altri e non se ne preoccupa; che non guarda a loro per darci un appagamento che possiamo ottenere solo da un’altra parte, ma che fornisce un ambiente in cui tale appagamento avviene nell’unico modo in cui può avvenire: attraverso l’unione dell’anima con Dio. Questo è lo scopo della vita familiare.
Supponiamo che il Maestro tenga un Satsang da qualche parte a breve distanza e che io voglia andare a trovarlo. Salgo in macchina e mi dirigo verso il luogo in cui si trova, ma quando arrivo, non scendo dall’auto: mi piace troppo. Continuo a guidare e non vedo mai il Maestro. È una perversione dell’uso dell’automobile.
La famiglia è come quell’automobile. È un mezzo di trasporto, un contenitore, che Dio ci ha dato per permetterci di lavorare attraverso il karma del destino e di elevarci al di sopra di esso. Quando scendo dall’auto, non la butto nel deposito di rottami: è lì per uno scopo e, finché la usiamo per quello scopo, ci servirà bene. Vale esattamente lo stesso con le nostre famiglie.
Il significato di questi passaggi dipende ovviamente dalla nostra definizione di amore. L’insegnamento del Maestro è che l’amore dentro di noi, che è la nostra essenza e il nucleo della nostra anima, è risvegliato da Lui come un dono di grazia; e questo tipo di amore richiede, di per sé, di essere condiviso con gli altri. In questo contesto il Maestro Kirpal ha detto:

Non perdiamo mai nulla quando diamo. Quando si dà amore, ci si accorge di avere meno amore nel proprio cuore? Al contrario, si è consapevoli di un potere d’amore sempre maggiore, ma nessuno può essere convinto di queste cose finché non le applica in modo pratico. Un grammo di pratica vale tonnellate di teorie. (Sant Bani, febbraio 1987, p. 15)

Ovviamente i due aspetti della dichiarazione di Gesù non si contraddicono. Il problema sta nel significato della parola «amore». Spesso usiamo l’amore quando intendiamo l’attaccamento; pensiamo di fare il bene di un’altra persona quando, in realtà, stiamo facendo qualcosa da cui alla fine noi trarremo beneficio. È qui che si annida il pericolo di menzogne egocentriche ed è importante essere consapevoli della differenza tra i due significati e delle nostre motivazioni.
Se siamo consumati dal bisogno di dikaiosyne – la giustizia di Dio, il punto di vista di Dio, le priorità di Dio, o in altre parole il vero amore – se dobbiamo mangiare e bere quell’amore, ci sarà concesso. Allora tutti gli attaccamenti egoistici che dal nostro punto di vista chiamiamo amore, spariranno e saranno sostituiti da un amore autentico, paragonabile all’amore di Dio che possiamo sperimentare nella persona del Maestro vivente. Il modo in cui si prende cura di noi è un esempio di ciò che tutti i Maestri ci hanno esortato a imparare, ed egli è in grado di rapportarsi con noi in questo modo speciale perché quando era un discepolo – e questo si riferisce a tutti i Maestri – ha patito questa «fame e sete di giustizia della via di Dio». Quell’esperienza lo risvegliò e aprì la strada affinché il vero amore che era in lui, emergesse e andasse a beneficio di tutti. Come disse Elizabeth Goudge: «Non potete non dare una volta che l’avete, ma dobbiamo averla prima di poterla dare».
Quando vediamo gli altri come estensioni di noi stessi, quando misuriamo il nostro benessere in base a ciò che gli altri fanno per noi, non va bene né per noi né per loro e non siamo in grado di esprimere vero amore. Questo attaccamento causa molti danni nel mondo. Sia il punto di vista di Kirpal sia quello di Sant Ji sull’educazione dei figli si intrecciano con questa concezione dell’amore: non cresciamo i figli per compiacere noi stessi, ma li alleviamo in modo da sbloccare e liberare l’amore di Dio che è in loro. Allora non sono fatti a nostra immagine e somiglianza, ma sono lasciati liberi di essere espressioni di Dio come Lui li vorrebbe. Se ci togliamo di mezzo e trattiamo i bambini come esseri umani degni di rispetto, evitiamo la miriade di errori di fare cose «per il bene del bambino», che in realtà sono manipolazioni egoistiche. Se ci interessa la giustizia di Dio più di ogni altra cosa, gli altri devono essere visti come una parte di quella giustizia, di quell’insieme.
In un discorso pubblicato nel Sat Sandesh del gennaio 1971, il Maestro Kirpal racconta una storia di vera devozione:

C’è un caso nella vita di Namdev, il cui nonno era un devoto degli idoli e ogni giorno portava il latte come offerta. Tutti conoscevano il suo percorso quotidiano al tempio con il latte e lui diceva: «Vado a portare il latte per farlo bere agli dei». Un giorno aveva impegni in un’altra città, chiamò Namdev e gli disse: «Tu fai la puja e porta il latte mentre sono via». Il bambino sapeva che il nonno portava il latte per gli dei, ma non sapeva che il nonno stesso beveva il latte, secondo l’usanza. Così, il giorno seguente, Namdev eseguì la puja e poi mise il latte davanti agli idoli. Chiuse gli occhi e pregò affinché accettassero l’offerta di latte, ma quando ebbe aperto gli occhi, il latte era ancora lì. Pregò ancora, ma il latte rimase. Si chiese perché non lo bevessero. Racconto questa storia per illustrare la differenza tra una preghiera di routine e una vera preghiera. Namdev disse allora agli idoli: «Ogni giorno avete bevuto il latte, cos’è successo oggi?» Non ricevendo risposta, divenne molto infelice, tormentato e gridò: «Se non venite a bere il latte, allora mi taglierò la gola!» e tirò fuori il pugnale. Subito il Signore apparve e bevve il latte.

In un’altra sezione di questo stesso discorso, il Maestro Kirpal racconta la passione dominante, il dolore e la ricerca di Dio in un modo bellissimo.

Il papiya (sparviero) piange angosciato.

Guru Amar Das spiega che gli strilli strazianti del papiya sono simili a quelli del suo stesso cuore, durante la lunga ricerca del Signore... Come può una persona del genere avere pace se non vede l’Amato? Ci sono unicamente profonda disperazione e desiderio nella sua anima. A questo proposito, un poeta ha osservato: «Oh matematici, avete calcolato quanto dura il giorno, la notte, l’anno; quanto dura la notte per quel cuore angosciato che piange per il suo Beneamato? Non potete aspettare un frutto sull’albero quando non si sono ancora formati nemmeno i fiori... »
Tutti noi dobbiamo passare attraverso questa condizione. Paramhansa Ramakrishna ha detto che se un uomo riesce a ricordare Dio ogni secondo per tre giorni ininterrottamente, allora di sicuro quello sarà il suo ultimo giorno sulla terra. Dopo tutto, Egli risiede in noi e se vede che il bambino lo desidera così intensamente da contorcersi in agonia, cosa farà un Padre amorevole? Farà in modo che il bambino possa entrare in contatto con Lui, ovunque sia manifestato...
Quindi non esiste una cura per uno stato così struggente, se non la visione del Signore stesso.

Se qualcuno pensa: «Beh, non posso fare tutte queste cose. È molto lontano da dove mi trovo. Non sono come queste persone nelle storie», dovrebbe ricordare che questi non sono comandamenti del Maestro. Gesù non ha detto: «Devi avere fame e sete di giustizia o andrai all’inferno». Non è stato detto nulla del genere. Non si tratta di leggi. In nessuna lettura è stato detto: «Devi fare questo o sarai punito».
Il punto è che ci vengono dati questi scorci di realtà e, come ha detto il Maestro Kirpal, questa è una condizione che tutti dobbiamo attraversare. Forse non l’abbiamo ancora superata, o forse l’abbiamo superata in parte, ma nel corso della nostra crescita occorre superare l’angoscia e il dolore della separazione. Dobbiamo crescere perché ci siamo impegnati a crescere e questo impegno va onorato. Dio ci guida e, indipendentemente da come le cose ci appaiono in un dato momento, la crescita deve avvenire. Vedremo da soli come dobbiamo fare della giustizia di Dio la nostra principale preoccupazione e sperimentare il dolore, la passione dominante.
Abbiamo osservato che nel Libro di Giobbe, Giobbe era un uomo buono e di successo, molto felice nell’amore per Dio. Poi, all’improvviso, senza un motivo apparente, perse tutto e fu costretto a «scendere nella cenere». Si addolorò e maledisse il giorno in cui era nato; ma nel mezzo dell’agonia fu consumato dal desiderio di vedere Dio, anche solo per discutere con Lui la propria causa. Alla fine lo vide e nulla di ciò che aveva perduto, era ancora importante. A quel punto, immediatamente, gli fu restituito tutto, perché la sua famiglia e i suoi beni non erano più il suo mezzo di identificazione. La sua passione dominante e il suo dolore lo avevano liberato per trovare la realtà di Dio.
Quindi non possiamo dire: «Non posso farlo». Dobbiamo farlo. Quando ci troviamo nella posizione in cui, per sopravvivere, dobbiamo avere fame e sete di vedere Dio, ci rendiamo conto della verità di ciò che dice il Maestro. Passiamo attraverso l’agonia, la sperimentiamo e comprendiamo ciò che ci sta accadendo perché i Maestri ci hanno preparato a questo. Riconosciamo la grazia di Dio che opera e siamo consolati. Se non attraversiamo questo periodo di intenso anelito e di dolore della separazione, ci rendiamo conto che manca qualcosa. Non siamo in grado di testimoniare pienamente l’insegnamento del Maestro perché non siamo passati attraverso queste importantissime fasi di crescita dolorosa.
Per quanto possiamo dire, sembra che nella vita di Sant Ji l’esperienza culminante di intenso pianto e sofferenza sia avvenuta quando il Maestro Kirpal lasciò il corpo. Era già un’anima molto evoluta e gli era stata conferita l’autorità di riportare le persone a Dio, eppure doveva affrontare questo capitolo finale. Questi insegnamenti non hanno quindi lo scopo di farci sentire cattivi o inadeguati, né di costringerci ad adottare un certo atteggiamento perché pensiamo di «doverlo fare». È una descrizione accurata di un aspetto della realtà che è assolutamente necessaria per ottenere ciò che desideriamo più di ogni altra cosa; e poiché lo vogliamo davvero, prima o poi dovremo superare la prova.
Allora saremo benedetti – questa è la benedizione che Gesù ha promesso a coloro che sono stati scelti per fare queste esperienze. Saremo «saziati, soddisfatti». Non sarà per merito nostro, ma Dio elargirà la sua grazia se avremo una passione dominante per Lui.

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